28.9.04
Partenopea (atto unico)
Scena prima (esterno giorno): Tutti di corsa. Tutto frenetico come sempre. Appiedata come sempre nella metropoli - e clacson, boeing che volano bassi, gente che strepita per farsi sentire. Finalmente approdi in una stradina ad accesso pedonale. "Qui niente auto" sospiri stressata. E per un soffio schivi il motociclista che ti piomba addosso dal lato opposto a quello verso cui stavi guardando ...
Scena seconda (esterno giorno): Questa è isola pedonale sul serio. Via Roma, nuova versione: palazzi sei e settecenteschi dalle facciate linde, vetrine piene di tentazioni, passanti quieti e ciondolanti. Marocchini, tunisini e varia umanità extracomunitaria ai bordi dei marciapiedi. Ti avvini per guardar meglio la mercanzia - hai puntato una finta griffe del color cipria che si porta tanto adesso ... e all'improvviso i lembi delle lenzuola che raccolgono le merci vengono avvicinati e il tutto sparisce nei vicoli nel giro di un secondo - ti guardi intorno e finalmente ti accorgi della piccola utilitaria rossa, con a bordo gli agenti in borghese ...
(continua?)
15.9.04
A me non va di postare
Però trovo in rete parole che sento molto mie - e decido di postarle anche da me le parole di Lia. Perché se si sostituisce 'profondo Sud' ad Egitto (e in alcuni casi Germania a Italia), l'esperienza mia attuale è assolutamente simile (e analogo lo sconforto):
Quando io ero ragazzina era di moda essere intelligenti. E colti.
Ci tenevamo. E spesso imbrogliavamo, bluffavamo, davamo un mucchio di ritocchi qui e là per sembrarlo, o per sembrarlo di più.
"Ho letto il Capitale", detto da uno di 13 anni. Sciocco, no?
"Cosa leggi? Dove hai viaggiato? Che musica ascolti?" Se sbagliavi le risposte eri un paria. Per non esserlo, il tuo orizzonte era pieno di libri da leggere, di posti da conoscere, di musica da ascoltare, di film da vedere. Eravamo piccolissimi e avevamo un mucchio di roba da studiare, se volevamo conquistarci il diritto di stare al mondo. Forse anche troppa, e non è strano che si siano cercate scorciatoie.
Un ragazzino di 13 anni che afferma di avere letto Il Capitale è buffo, certo patetico. Però ti sta dicendo qualcosa: che riconosce il valore dei libri, che sa che le proprie affermazioni hanno bisogno di essere supportate da studio, esperienze, fonti e che, no, non basta che te lo dica la pancia o l'amico, una cosa, perchè questa cosa sia vera.
A uno della mia generazione, se lo chiamavi stupido o ignorante lo uccidevi.
Poi magari lo era, chi dice di no.
Però la sanzione sociale, sulla stupidità e sull'ignoranza, era fortissima. Tanto che la gente imbrogliava, appunto.
Io sono stata fuori dall'Italia molti anni.
Quando sono tornata, ho cercato di integrarmi in un mondo che per me era nuovo.
"Vediamo: che si fa in Italia?"
C'era Drive In in TV. Tutti ti dicevano che era divertentissimo e tu, con buona volontà, ti applicavi. Lo guardavi e, se non ti veniva da ridere, era perchè ti mancava il polso delle cose, ovviamente.
Dalle riviste, apprendevi che il possesso di determinati oggetti era una specie di segnale per manifestare la tua identità. E, porca miseria, l'Italia sembrava catapultata, come un sol'uomo, negli stessi oggetti, negli stessi desideri, nella stessa identità da manifestare.
... Siamo in Italia. Siamo a Milano. Qui si fa questo, si indossa questo, si è in questo modo qui. Deve essere bello. Se ci concentriamo, ci sembrerà bello. Come sto con questi jeans?
...
Quando ho cominciato ad insegnare, ho avuto per alunni quelli per cui Drive In deve essere stato come Carosello per me.
Ora, vediamo se riesco a spiegarmi: io credo che i ragazzi siano tutti uguali. Ad ogni latitudine, in ogni epoca, in qualsiasi condizione, un ragazzo è un ragazzo. Sogna, spera, si arma di arroganza e cerca aiuto, si innamora e si protegge, cerca di conoscersi. Ovunque nello stesso modo.
Sono proprio tutti uguali, i ragazzi. Tutti.
L'unica cosa che cambia sono i valori che possiedono. Ecco: i valori - loro sì - sono soggetti alle epoche, alle latitudini, alle generazioni.
Io, quando ho cominciato a insegnare, ho scoperto che non ci tenevano molto, i miei studenti, ad essere intelligenti. E tantomeno ad essere colti.
Non fingevano letture mai effettuate: trovavano normale che non si leggesse. Essere sciocchi non era un insulto, per loro. Essere brutti, per esempio, era molto peggio.
La consapevolezza del baratro generazionale, per me, è sorta da lì. Se io dicevo a un mio alunno "Devi imparare a ragionare", lui non faceva una piega. Al massimo mi chiedeva come fare.
Se qualche prof. lo avesse detto a me, io avrei seriamente meditato il suicidio.
Certe volte sbagliano a prendere appunti, gli studenti.
Poi studiano sugli appunti sbagliati e, quando li interroghi, ti ripetono pari pari ciò che hanno studiato. E se gli dici: "Ma che sciocchezza è??" loro, pacifici, ti dicono che glielo hai detto tu. Che loro stanno ripetendo ciò che tu hai detto.
E tu cerchi di fargli capire che è illogico, il discorso che stanno facendo, che non ha senso, che c'è un errore, che gli appunti sono sbagliati ma che, soprattutto, loro avrebbero dovuto accorgersene, che gli appunti erano sbagliati.
Niente.
Dicono: "Ah." e correggono. Ma non si mettono in discussione. Non si accorgono che stai tirando in ballo il loro spirito critico. Non capiscono che, se davvero io avessi detto la sciocchezza che loro hanno mandato a memoria, loro avrebbero tutti gli strumenti per linciarmi.
Non lo capiscono.
...
Qualche volta ho provato a dirlo, in classe: "Io potrei dirvi qualsiasi cosa. Potrei inventarmi la storia, la letteratura, la lingua. Non ve ne accorgereste nemmeno. Non cerchereste minimamente di accorgervene. Prendereste appunti e me li ripetereste, e basta."
Mai che uno si sia ribellato, di fronte a una frase così carica di disprezzo. Mai.
Non se ne accorgevano.
Ed io avrei pagato, perchè se ne accorgessero. Mi fa ancora male la loro accondiscendenza, quel loro annuire. Quel sorridere complici: "Sì, siamo proprio idioti."
...
Sono arrivata in Italia alla fine degli anni '80 e ne sono fuggita all'inizio del 2000.
Una quindicina di anni in totale.
Ho il ricordo di un paese desideroso di istruzioni: come vestire, dove abitare, che macchina comprare, come sembrare.
Mi sfilano davanti agli occhi centinaia di ragazzi completamente impreparati a mettere in discussione alcunché, attaccati alla tetta del tuo registro.
Il desiderio di essere accettati, di essere accettabili, di essere integrati.
Studenti di Scienze Politiche che ti dicono all'esame che loro, no, non leggono i giornali. E fanno la faccia da bambini, mentre te lo dicono, e ti stanno dicendo: "Mi vuoi bene? Potresti volermi bene? Potresti darmi 18 perchè sono carino, perchè sono buono, perchè sarei un bravo figlio se tu fossi la mia mamma?"
E sono le uniche rivolte che puoi scatenare, queste: il non volergli bene. Nonostante siano integrati, ti sorridano, abbiano la faccia giusta, la casa giusta, il vestito giusto e tutto fatto bene. E tu li bocci. Nonostante tutto questo, e solo perchè non sanno la tua materia.
Non gli vuoi bene, ecco.
E allora sì, si ribellano. Perchè loro hanno dedicato la loro vita intera, ad essere meritevoli di essere voluti bene. Di essere accettati. Di essere accettabili per "l'autorità".
Sono dei coglioni totali e, nonostante questo, tu li bocci?
Sei una carogna.
E li ferisci, davvero. Loro hanno fatto del loro meglio - anzi no - loro sono stati ciò che meglio potevano.
Il fare non conta più da un pezzo. Qui si giudica solo l'essere. Buono, cattivo, bello, brutto.
I minimi termini dell'essere, appesi al tuo giudizio di Grande Tetta Accondiscendente.
"Dammi ciò che mi serve per amore o per pietà, non perchè io lo meriti."
E chi ha bisogno di dittature quando ha a disposizione un simile materiale umano, all'entrata delle cabine elettorali?